Destinazione Iran

DESTINAZIONE IRAN. DOVE IL FATTORE UMANO È L’ATTRAZIONE PRINCIPALE

di Fabio Carbone

Considerazioni su un paese da svelare, sulle relazioni (pericolose) tra geopolitica e destination image e sul ruolo del turismo per la comprensione tra i popoli

Raggiungere Teheran dall’aeroporto internazionale Imam Khomeini è già di per sé un’esperienza singolare per ogni visitatore occidentale. Soprattutto di giorno, quando il sole si riflette sui tetti metallici di decine di moschee sulle colline lontane, e sulla superficie del lago Chitgar, creando uno scintillio ipnotico che stride però con la spessa coltre di nebbia all’orizzonte. La nebbia (o meglio, la cappa di inquinamento) che quasi perennemente avvolge Teheran. L’esperienza stordisce da subito, dunque. Tuttavia, e nonostante la strada ci conduca dritti verso il centro di una megalopoli abitata da circa dieci milioni di persone, la sensazione, stranamente, è quella di essere a casa, al sicuro.

 

Qarib, letteralmente “il forestiero un po’ tonto”, quello che ha bisogno di aiuto per strada, quello che bisogna aiutare per trovare l’indirizzo verso cui si dirige. Così spesso ti definiscono gli iraniani, piuttosto che “turista”. E lo fanno in modo affettuoso, perché un qarib, soprattutto se straniero (khareji), suscita negli iraniani talmente tanta simpatia che negli uffici pubblici magari gli evitano di fare la coda; per strada lo accompagnano fino all’hotel se è necessario; al ristorante trovano sempre modo di liberare un tavolo, perfino nei locali affollatissimi per il pranzo del venerdì (che equivale, nell’Islam, alla domenica cattolica). Questo è un qarib. In Iran, dove il turismo domestico è molto praticato ma di turisti internazionali se ne vedono ancora pochissimi, questo è il trattamento speciale riservato ad ogni visitatore straniero.

 

Da tanti anni ormai ho il privilegio di frequentare il Medio Oriente, e in particolare l’Iran, uno dei luoghi più affascinanti del mondo. In qualità di inviato speciale in Iran per l’Istituto Internazionale per la Pace attraverso il Turismo, viaggio in questo paese molto spesso per creare progetti insieme alle università, associazioni, organizzazioni pubbliche e private di tutto il paese. Mi sento privilegiato per il fatto che i miei viaggi in Iran sono all’insegna dell’autenticità, perché lavorare con loro mi porta a condividere con loro le giornate, i pranzi, le cene, non nei ristoranti bensì nelle loro case, che gli iraniani non hanno alcun problema ad aprire agli sconosciuti, per mero senso (dovere, addirittura) di ospitalità. Per altro, scopro che tale legame tra italiani e iraniani ha una lunga tradizione: un’eredità di amore, di fascino senza parole e di ammirazione stupefatta da parte degli italiani verso quello che oggi è l’Iran; un’eredità con una storia vecchia di centinaia di anni. Una passione incarnata nei secoli da esploratori e viaggiatori come, tra gli altri, Marco Polo (XIII-XIV secolo), Luigi Pesce (Napoli, 1828 – Teheran, 1864). Quest’ultimo è stato il primo fotografo ad aver catturato immagini di Persepoli, Pasargadae e Naqsh-e Rustam, come il suo contemporaneo Antonio Giannuzzi, anche lui tra i primi fotografi delle meraviglie archeologiche e culturali della Persia, nome ufficiale dell’attuale Iran fino al 1935.

 

Mi sento erede di una tradizione all’insegna della stima reciproca, quindi, ma anche testimone di quanto, oggi, l’Iran sia tra le realtà più complesse e affascinanti dal punto di vista umano, e di quanto il turismo possa essere un veicolo di riscatto per l’Iran della gente comune, violentemente emarginata socio economicamente dall’Occidente da ormai troppo tempo. 

 

Iran, destinazione turistica vittima della geopolitica

Di solito spiego questo concetto ai miei alunni con la seguente, provocatoria domanda: “preferireste un viaggio a New York (e Stati Uniti in genere) o in Iran?” La risposta è normalmente unanime: “New York, Stati Uniti!!!”. “E perché’?” chiedo loro. “Perché non ci sembra che l’Iran sia un luogo sicuro, anzi!”. Ed è a questo punto che metto in moto il loro pensiero critico: restano infatti più che sorpresi (e costretti a rivedere le proprie posizioni), quando gli faccio notare che il tasso di criminalità negli stati uniti è 2% superiore a quello dell’Iran; il numero di omicidi, in particolare, è 6 volte superiore negli USA rispetto all’Iran, e per quanto riguarda gli intentional murders, sono il 57% in più negli Stati Uniti; per non parlare dei delitti di odio, 79% in più negli USA rispetto all’Iran (Fonte: NationMaster, su dati delle Nazioni Uniti e World Bank).

 

Insomma (e non me ne vogliano gli statunitensi, è appena un esperimento a fini pedagogici), gli studenti capiscono presto che c’è qualcosa che non quadra nelle loro convinzioni, perché si rendono conto che la destinazione da loro scelta in quanto “più sicura” è in effetti oggettivamente un luogo più pericoloso non solo per i turisti, ma per la popolazione locale stessa. Ovviamente la seguente domanda ai miei studenti, ancora a bocca aperta per la sorpresa, è: “Dunque, cosa vi spinge a pensare che l’Iran non sia un luogo sicuro?” ed è così che inizia il nostro dibattito su relazioni internazionali, geopolitica, mass media e immagine di una destinazione turistica.

 

Il 29 gennaio 2002, meno di cinque mesi dopo gli attacchi terroristici dell’11/9/2001, il presidente degli Stati Uniti George W. Bush usò per la prima volta l’espressione “Asse del Male”, che indicava una serie di paesi accusati di rappresentare un grave rischio per la sicurezza mondiale in quanto finanziatori di terroristi e/o detentori di armi di distruzioni di massa pronte ad essere usate. Tali accuse erano per lo più infondate – come dimostrarono gli esiti della violentissima invasione dell’Iraq da parte della coalizione guidata dagli USA – ma utili a creare una narrativa di odio che dilagasse tra gli occidentali e che potesse giustificare future azioni militari di carattere imperialista, più che di difesa contro il terrorismo. E tale narrativa dilaga ancora oggi attraverso i nostri mass media. L’Iran, che già dalla rivoluzione del 1979 era visto come nemico dell’Occidente, venne contemplato nella lista dei paesi dell’“Asse del Male”, giustificando ulteriori campagne denigratorie da parte dei media occidentali. La percezione che la maggior parte degli Occidentali ha dell’Iran moderno è, almeno in parte, il risultato di tali martellanti campagne.

 

Ma proprio al netto di queste ultime e delle discussioni su quanto sia buono o cattivo l’Islam (discussioni, per altro, utili solo allo share di trasmissioni televisive sensazionalistiche e certo giornalismo irresponsabile, non certo ad una reale comprensione di differenze socioculturali e similitudini), viaggiare in Iran oggi è più rivelatore che mai. Un viaggio che ci porta a scoprire che l’ostilità immaginata verso gli occidentali semplicemente non esiste tra la gente comune, e che svela al contrario una nazione meravigliosamente calda e accogliente.

 

Tra i palazzi in rovina di Persepoli, i templi di Teheran e i comignoli acchiappa-vento di Yazd (patrimonio UNESCO), siamo infatti costretti a riconsiderare le nostre idee e a capire che gli imperi che sorgevano e cadevano qui prima che i confini fossero tracciati, erano quelli che formarono tutte le nostre storie. A questo, poi, si aggiunge quella che considero – da viaggiatore occidentale – la perla dell’Iran: il fattore umano. Un popolo che, dietro i veli, coltiva l’amore per la poesia, l’arte, il dialogo, la conoscenza, l’orgoglio per le radici persiane ed un millenario senso di ospitalità. Per strada o nei locali pubblici, i giovani iraniani si avvicinano sorridenti per chiacchierare, un po’ per curiosità e un po’ per mostrare ed esercitare il loro inglese: sono molto estroversi, le donne ancor più che gli uomini (risulterà sorprendente notare che l’Iran ha uno dei più alti tassi di donne nell’istruzione universitaria al mondo). I temi che tirano fuori sono tra i più vari: dalla domanda sportiva: “Milan? Juve? Totti?”, a “cosa ne pensi della copertura della BBC sul Medio Oriente?“; o ancora: “cosa pensano gli italiani dell’Iran e degli iraniani?“. E a quest’ultimo tema sono davvero interessati, perché esiste una frustrazione diffusa soprattutto tra i giovani rispetto all’immagine che l’Occidente ha di loro: alcuni la prendono con filosofia, e magari si aprono la giacca e ti dicono scherzando: “Non preoccuparti, oggi ho dimenticato il giubbetto esplosivo a casa!”; ma in realtà sono tutti molto ansiosi di poter dire più o meno esplicitamente: “per favore, non ci giudicate senza conoscere davvero gli iraniani!”. E a tale scopo quale veicolo può risultare più efficace se non il turismo?

 

Viaggiare in Iran può essere dunque considerato di per sé l’espressione più alta del turismo, inteso come pratica che porta all’incontro e al dialogo. Viaggiare in Iran vuol dire non lasciarsi influenzare dalla martellante e subdola propaganda denigratoria che è parte di un’agenda (geo)politica internazionale, ma che non rispecchia (e non rispetta) le persone comuni, il popolo iraniano.

 

Monumenti e giardini. Deserti e cascate. E il fattore umano.

L’Iran è un concentrato di attrazioni turistiche. La storia dell’Iran si misura non in decenni o secoli, ma in millenni. Le diverse civiltà che percorrevano questa terra tra Europa, Asia e Arabia erano altamente avanzate, sviluppando non solo agricoltura e architettura, ma arte, idee e poesia. Aree archeologiche e tombe secolari sono ancora oggi luoghi di pellegrinaggio (la tomba di Ciro il Grande, ad esempio, a Pasargad), così come lo sono luoghi di culto islamici, ma non solo (il Tempio del Fuoco, Atash Behram, un tempio zoroastriano a Yazd). La maggior parte dei viaggi in Iran inizia nella capitale Teheran. Qui, musei di prim’ordine, caffè moderni, grattacieli in cemento e una cacofonia di traffico convivono con tradizionali case da tè, giardini tranquilli ed eleganti luoghi, tra cui lo squisito Palazzo Golestan e il labirintico Grand Bazaar. Qui, come in qualsiasi angolo dell’Iran, le diverse parti della giornata sono scandite dai suggestivi richiami alla preghiera che risuonano ancora dai minareti, mentre i fedeli a piedi nudi si inginocchiano e pregano all’interno delle moschee. 

 

Ma le città e i luoghi da visitare non si contano: tra queste, prima fra tutte la città di Esfahan, considerata da molti città più bella dell’Iran e capitale culturale, ricca di palazzi, moschee storiche, ampi viali alberati ed eleganti giardini tradizionali, oltre ad essere sede di un antico bazar e una delle più grandi piazze del mondo. E poi Shiraz, capitale dell’Iran durante il 1700, conosciuta ancora oggi come “la città di poeti”, dove si trovano le tombe di Hafez e Sa’di, due dei più amati poeti persiani di tutti i tempi. E a poca distanza da qui, nel paesaggio arido a nord-est si trova l’immensa area archeologica della città di Persepoli, fondata nel 520 a. C., una delle grandi meraviglie del mondo antico e progetto di Dario il Grande.

 

E poi deserti e montagne innevate; caravanserragli e ruscelli di acqua limpida; mosaici e giardini dove il tempo si è fermato da millenni, e la bellezza è rimasta incontaminata; le pittoresche foreste del nord est a picco sul Mar Caspio. E la gastronomia: la storia e la cultura dell’Iran – come avviene un po’ ovunque- si riflettono tanto nella lingua quanto nel suo cibo, modellato nei secoli da influenze persiane, russe, arabe e dell’Asia centrale. E infine quella che a mio avviso rimane la principale bellezza e la più importante risorsa e attrazione turistica: il fattore umano.


Questo è un paese di stufati casalinghi, hijab e foulard variopinti, grattaceli futuristici e ambienti rurali pittoreschi; del chai, il te, sorseggiato con gli amici ad ogni ora del giorno. Un popolo dall’ospitalità per noi ormai inimmaginabile: gli iraniani, che in mezzo al caos moderno e alle grandissime sfide socioeconomiche (molte delle quali procurate dall’embargo imposto dall’Occidente), continuano ad essere semplicemente alla ricerca di pace e di dialogo con il khareji, lo straniero. L’incoming tourism rappresenta ancora per molti iraniani l’unica possibilità di incontrare uno straniero. La ricchezza di un viaggio in Iran sta nell’accettare la tazza di chai offerta con trasporto sincero dal venditore di dolci, nella condivisione di momenti con la gente comune, che sarà contenta di scambiare due parole sulla famiglia, sul vostro lavoro, sulla vostra nuova passione per il kebab iraniano. Un coinvolgimento umano che porterà a momenti indimenticabili, forse a nuove amicizie, ma anche a profonde riflessioni su quello che la scrittrice nigeriana Chimamanda Adichie chiama “il pericolo della singola storia”, avvisandoci che l’ascoltare appena una sola storia, un’unica descrizione – positiva o negativa che sia – di una persona, una società o un paese, ci avviamo verso terribili malintesi. E rifletteremo sul possibile ruolo del turismo nello spingerci a capire che le differenze si possono superare quando si comprendono realmente, che il dialogo può esistere, e la stragrande maggioranza di noi può andare d’accordo. Una lezione semplice, forse addirittura ovvia, ma che oggi sembra più che mai necessario e urgente ricordare. Una lezione che, in parte, ho imparato viaggiando in Iran.