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AMALFI, L’ANTICA REPUBBLICA MARINARA

di Marina Ambrosecchio

A malfi, una delle perle dalla nostra penisola, la più antica repubblica marinara d’Italia, è oggi una cittadina di 6500 abitanti ricca di storia e di arte, che da il nome alla omonima costiera amalfitana, famosa in tutto il mondo, dal 1997 Patrimonio dell’Umanità Unesco. Visitata da sempre per le sue bellezze Amalfi è anche per i buongustai e i golosi, il luogo dove furono inventati i cannelloni (da tal Salvatore Coletta). La singolare architettura di case bianche di Amalfi, il clima ottimo per quasi tutto l’arco dell’anno, ne fanno una metà di migliaia di turisti italiani e stranieri. Secondo una delle leggende che circondano la fondazione di Amalfi, Ercole, il dio pagano della forza, amava una ninfa di nome Amalfi. Il suo amore ebbe breve vita: ella si spense ed Ercole volle darle sepoltura nel posto più bello del mondo e per immortalarla ne diede il nome alla città da lui costruita. Ma questa era la leggenda, per la storia ufficiale invece, Amalfi fu fondata dopo la morte di Costantino; essa trae le sue origini da famiglie romane che, imbarcate per Costantinopoli, l’attuale Istanbul, furono travolte dalla tempesta nel golfo di Policastro, vi avrebbero fondato una «Melphes» l’attuale Melfi, poi trasferitisi più a nord, avrebbero preso dimora nel luogo dell’attuale Amalfi, fondandola col nome di «A-Melphes». Amalfi sorge lungo la valle del fiume Canneto (o Chiarito come anticamente veniva denominato) stretta tra il Monte Aureo a Est ed il Monte Tabor ad Ovest; Il centro cittadino ha la forma di un ventaglio rovesciato che misura circa 1,5 km nella parte più ampia, sulla spiaggia, e qualche centinaio di metri nel tratto opposto della Valle dei Mulini (circa 2 km verso l’interno). La suddetta Valle è la propaggine urbana della più ampia Valle delle Ferriere, l’antica “zona industriale” di Amalfi, ove sorgevano le cartiere e l’antica Ferriera da cui il nome all’intero comprensorio. La Valle per le sue peculiarità faunistiche ed ambientali è oggi riserva naturalistica orientata, e sarà meta di una piacevole passeggiata… Fuori del centro cittadino, in direzione Ovest, e parallela alla Strada Statale 163, si snoda l’antica Via Maestra dei Villaggi. Immersa nel verde dei terrazzamenti di limoni ed ulivi per tutta la lunghezza, circa 4 km, è l’antica strada pedonale che collegava al centro le 5 le frazioni amalfitane… Sul lato mare invece, sempre verso Ovest, snoda l’incantevole costiera ricca di suggestivi anfratti, di spiaggette ed in ultimo della meravigliosa Grotta dello Smeraldo… Procedendo verso Est invece, a poche centinaia di metri è Atrani, raggiungibile sia percorrendo la SS 163 che la panoramicissima pedonale via S. Maria delle Signore.



UN PO’ DI STORIA

Le prime notizie di Amalfi risalgono al 533, al tempo della guerra greco-gotica, allorché con la vittoria di Narsete su Teia, Amalfi passa sotto il dominio dell’impero Bizantino ed entra a far parte del ducato di Napoli. Nel VI secolo diviene sede vescovile. Il vescovo assolveva funzioni religiose e provvedeva alla difesa della città. In seguito si andò formando una aristocrazia di grandi proprietari terrieri, i quali privarono il vescovo del potere politico. Nell’836 Sicardo, duca di Benevento, saccheggiò Amalfi, deportandone gli abitanti a Salerno. Nell’879 ucciso il duca Sicardo, gli amalfitani si ribellarono e conquistarono una potenza e un’autonomia che durarono fino alla fine dell’XI secolo. Amalfi iniziò un’astuta politica nei riguardi dei due imperi e degli altri Stati italiani per salvaguardare i propri interessi commerciali e sconfisse i saraceni che ne insidiavano il traffico. In un primo tempo fu retta a Repubblica, verso l’850 con due «prefetti» annuali, poi da «giudici », ed infine dal 958 da «duchi dogi». Sulla loro elezione avevano un formale diritto di conferma gli imperatori d’Oriente, come accadeva a Venezia, ma in realtà la città si amministrava in piena libertà, con leggi magistrati e monete proprie. Le esigenze di difesa ed del commercio marittimo, spinsero spesso Amalfi ad allearsi con i saraceni e Ludovico II, contro i bizantini, che volevano ripristinare la sovranità dell’impero d’Oriente. L’alleanza con i saraceni fu comunque instabile e poco duratura. Questi infatti, nel 915, dopo una furiosa battaglia furono battuti e definitivamente cacciati dal territorio amalfitano. Nel 920 sempre per mano degli amalfitani furono cacciati da Reggio Calabria. Il notevole sviluppo di Amalfi era dovuto in gran parte alla indipendenza di cui godeva; ma la limitatezza del territorio e la debolezza militare per la carenza dell’appoggio bizantino rendeva insicura questa indipendenza. Nel 1039 Guaimario V, principe di Salerno, s’impadronì del ducato di Amalfi e sebbene ridette il potere al duca Mansone II il cieco che ne era stato privato dal fratello Giovanni II, stabilì in realtà il dominio salernitano sulla città. Pressati dai salernitani, gli amalfitani governati da Sergio IV si rivolsero a Roberto il Guiscardo nel 1073. Salerno capitolò ma gli amalfitani dovettero lasciar occupare la loro città dai Normanni, riavendo la pace a costo della libertà. Il «terror mundi» si mostrò magnanimo verso gli amalfitani, accordando loro una certa autonomia. Dopo la morte del principe normanno nel 1085, Amalfi cercò più volte di scuotersi dal giogo normanno. Nel 1135 Amalfi subì un orribile saccheggio da parte dei Pisani «traditori» chiamati in soccorso contro la prepotenza normanna. è da questo periodo che ha inizio la decadenza di Amalfi. Nel 1343 una spaventoso maremoto, descritto dal Petrarca, investì la costiera; gran parte dell’abitato andò distrutto (con esso probabilmente anche il palazzo Ducale, citato in un documento come «palatium amalphitanum»), furono sommerse le fortificazioni, i cantieri navali, i magazzini e le attrezzature marittime. Cinque anni dopo, la famosa peste del 1348, descritta dal Boccaccio, completò l’opera di distruzione fra gli uomini. Amalfi e tutte le cittadine della costa che erano state splendide località popolate e fortificate, ricche di sontuosi palazzi, ornati di affreschi, marmi, colonne, fontane, si avviavano a diventare modesti paesi che, privi della ricchezza che veniva dal mare ritornarono alla economia tradizionale della pesca, dell’artigianato locale e dell’agricoltura. Soltanto sul finire dell’Ottocento l’affermarsi del fenomeno turistico ridiede incremento ad una città che costituisce l’epicentro economico di tutta la costiera che da Amalfi prende il nome.

 

LA CATTEDRALE

Tra i monumenti da non perdere ad Amalfi c’è la Cattedrale. La cattedrale di Amalfi è un complesso architettonico costituito da due basiliche accostate e comunicanti, dalla cripta inferiore, dalla scalea e dall’atrio d’ingresso, dal campanile e dal Chiostro Paradiso. Il nucleo primitivo di tale complesso è rappresentato dalla basilica settentrionale, la quale presenta un orientamento con altare ad est ed ingresso ad ovest, nonché un impianto risalente con certezza al IX secolo, individuabile in un’ampia navata collegata ad un’altra più stretta, divenuta in seguito vano di collegamento con la basilica adiacente. Una cattedrale amalfitana viene indirettamente menzionata nella lettera che papa Gregorio Magno inviò nel 596 al rettore delle Chiese della Campania, con la quale richiamava ufficialmente Pimenio, vescovo della Civitas Amalfitana, perché non risiedeva stabilmente nella sua sede. La Cattedrale fu edificata in una posizione strategica sia dal punto di vista della centralità e dell’emergenza urbana sia da quello della difendibilità, su di un pianoro rialzato di circa 20 metri sul livello del mare, composto da una pomice vulcanica particolarmente dura e compatta. Di quella primitiva cattedrale paleocristiana oggi restano forse soltanto le colonne e i capitelli classici di spoglio, recuperati da edifici romani della zona o trasportati via mare da località più lontane. Della parte absidale oggi sopravvivrebbero tre piccoli archi a sesto ribassato di stile bizantino del VI secolo, poggianti su pilastri e colonne, inglobati in seguito nella cappella dei Ss. Cosma e Damiano, trasformata nel corso del XIV secolo nella “cripta superiore o del Presepe”.

 

NELL’ANTICHITA’

La cattedrale di S. Maria (così è menzionata in una cronaca del IX secolo) ospitò per breve tempo le spoglie di Santa Trofimena, la più antica protettrice di tutti gli Amalfitani, nonché patrona della città di Minori. Nell’anno 987 avvenne un fatto straordinario per la storia della Chiesa amalfitana e della sua cattedrale: il duca di Amalfi Mansone I ottenne dal pontefice Giovanni XV l’elevazione a sede arcivescovile e metropolitana della diocesi amalfitana. In virtù di questo notevole riconoscimento, Mansone edificò una nuova cattedrale, fondata su tre navate, accanto a quella vecchia dell’Assunta. Dato che S. Andrea Apostolo era già da tempo diventato il protettore dell’intera diocesi, il nuovo tempio fu dedicato proprio a lui. Venne così a costituirsi un complesso architettonico formato da due basiliche accostate e comunicanti, quindi una “duplice cattedrale”, che rendeva l’ edificio sacro amalfitano più simile ad una moschea araba che ad una chiesa cristiana. Infatti alcune coppie di colonne classiche scanalate e lisce sono venute fuori nel corso di saggi effettuati lungo la parete divisoria tra le due cattedrali. Lavori di ampliamento dell’intero complesso furono effettuati nei primi anni del XIII secolo per iniziativa dell’arcivescovo Matteo di Capua e del cardinale amalfitano Pietro Capuano, mediante la realizzazione della Cripta e dell’Atrio della Cattedrale. Questi interventi interessarono la realizzazione del transetto della cattedrale di S. Andrea (in alto si notano gli archi acuti intrecciati di stile moresco), della sottostante cripta della confessione, dell’ atrio, nonché delle bifore e monofore archiacute e della cupoletta radiale (identica a quelle dei bagni arabi presenti nel territorio amalfitano in età sveva) collocata sulla scala che immette dalla primitiva cattedrale nella cripta. Elementi architettonici caratteristici di questi interventi sono soprattutto le volte a crociera, gli archi acuti, le colonnine con i capitelli “a stampella”. A seguito della costruzione della cattedrale mansonea, la vecchia basilica dell’Assunta cominciò a perdere gradualmente importanza: infatti, già nel 1176 essa era diventata una semplice navata (Nave dei Ss. Cosma e Damiano); poi sin dal 1180 davanti al suo ingresso si cominciò ad elevare il campanile. Reperti rilevanti, databili tra il XII ed il XIII secolo, sono i vari frammenti di mosaico che un tempo facevano parte degli amboni delle due basiliche. Un altro grande personaggio ecclesiastico amalfitano, l’arcivescovo Filippo Augustariccio, fece completare il campanile nel 1276, facendovi aggiungere la cella campanaria, la quale mostra archi intrecciati composti da maioliche bicromi. I due piani sottostanti, che presentano bifore e trifore, furono realizzati verso il 1190. Lo stesso arcivescovo, tra il 1266 ed il 1268, aveva fatto edificare il Chiostro Paradiso. Durante il XIV secolo la nuova cattedrale fu abbellita di due pinnacoli gotici e di un mosaico sulla facciata, raffigurante S. Andrea Apostolo. Nei primi anni del secolo successivo esisteva poi una grande cupola centrale.

IN ETA’ MODERNA

Una grande trasformazione dell’intero complesso avvenne in Età Moderna. Innanzitutto la vecchia cattedrale assunse una veste contro-riformistica; la realizzazione in quel tempo (XVI secolo) di un crocifisso ligneo (ora nel transetto della nuova basilica) fece attribuire all’antica cattedrale l’appellativo di “navata del crocifisso”. A partire dal 1931 e per 60 anni lavori di restauro hanno eliminato la veste contro-riformistica, riportando alla luce la struttura medievale. La grande trasformazione barocca e rococò della nuova cattedrale avvenne nel primo ventennio del XVIII secolo per volontà dell’arcivescovo Michele Bologna. Così le antiche colonne furono chiuse nei pilastri di marmo, i matronei da cui si affacciavano donne e bambini chiusi nella bianca muratura con fregi e decorazioni. Fu realizzato un soffitto in oro zecchino nella navata centrale e nel transetto, racchiudente tele di Andrea d’Aste e di Giuseppe Castellano, rievocanti la Passione di S. Andrea. Furono completamente distrutte le cappelle medievali e rinascimentali distribuite un tempo tra le navate di S. Giovanni, S. Matteo, S. Caterina, la cui collocazione e i cui elementi artistici sono ricostruibili in base ai documenti d’archivio. Al XVIII secolo appartengono pure la facciata barocca visibile nelle stampe antiche e le varie tele esposte in cattedrale e nella sagrestia. Inoltre nel 1728 fu costruita l’attuale scalea di accesso al duomo, la quale andava a sostituirne un’altra esistente già nel 1452; l’accesso medievale originario avveniva invece dal lato settentrionale, dove ancora oggi si nota un arco trilobato di stile arabo. Verso la metà del secolo scorso la facciata barocca della cattedrale subì gravi danni, per cui si decise di rifarla. Siccome i lavori portarono alla luce l’antica facciata romanica con archetti, colonnine e mosaici (un frammento di mosaico del XII secolo è conservato nel Chiostro), fu stabilito di realizzare una facciata simile a quella originaria. I lavori terminarono nel 1891 e restituirono una facciata di tipo medievale abbellita dai mosaici d’impronta bizantina riprodotti dalla ditta Salviati di Venezia da tele di Domenico Morelli; tali mosaici rappresentano il Cristo dell’ Apocalisse affiancato dai simboli dei Quattro Evangelisti e i Dodici Apostoli. A circa un chilometro dal centro di Amalfi si trova il piccolo borgo di Atrani da sempre unito ad Amalfi. Il paesino molto pittoresco è abitato da poco meno di 1000 abitanti. Durante la repubblica qui vivevano le famiglie patrizie e qui venivano seppelliti i dogi.

 

L’ANTICO ARSENALE DI AMALFI

L’Arsenale era il cantiere navale dell’Antica Repubblica . Attestato fin dal 1059, era l’edificio dove si costruivano e riparavano navi. L’Arsenale di Amalfi costituisce un unicum nel suo genere: conservando intatte le sue strutture originarie altomedievali, è, infatti, l’unico cantiere navale del tempo oggi visitabile nella zona del Mediterraneo. Oggi si può ammirare solo una parte dell’edificio originario formato da 3 corsie (una fungeva da deposito) che si estendevano verso il mare. La particolarità dell’Arsenale di Amalfi consiste nella sua architettura che coniuga la sinuosità delle volte all’imponenza dei pilastri. Le volte a crociera rinforzate da sottoarchi sono chiaramente influsso dell’architettura araba visibile in molti altri monumenti della costiera. L’edificio è interamente costruito in pietra e calce. A partire dall’Età Moderna l’ attività cantieristica cessò e l’Arsenale fu usato come luogo di ricovero e manutenzione delle navi. Dopo anni di uso improprio e di abbandono, l’Arsenale finalmente ritorna a riaprire i battenti e a raccontare, come mai aveva fatto finora, la storia di Amalfi, con l’istituzione al suo interno del Museo della Bussola e del Ducato marinaro. Il 28 dicembre 2010 l’Amministrazione comunale e il Centro di Cultura e Storia, con la collaborazione della Regione Campania – settore Musei e Biblioteche – , la Soprintendenza beni storico-artistici ed etnoantropologici di Salerno e Avellino e la Soprintendenza dei beni archeologici di Salerno, hanno posto la prima pietra e hanno restituito l’Arsenale alla cittadinanza. Il rinato Museo, ancora nella prima fase di allestimento e con progetti in continua evoluzione, è già in grado di regalare ai tanti visitatori la suggestione di un viaggio nel tempo, la possibilità di ripercorrere, guidati da Flavio Gioia e dalla sua bussola, ricreando le scie delle galee amalfitane per il Mediterraneo. L’oro dei sette tarì, nonostante l’usura dovuta agli scambi ma soprattutto al tempo, torna a splendere al centro della prima delle due navate. All’oro dei tarì si contrappone il bianco ingiallito delle pagine dell’imponente corpus legislativo che regolava l’ordinamento giuridico del Ducato Amalfitano, costituito dalle Pandette del Codice di Giustiniano, dalle Consuetudines Civitatis Amalfie e dalla Tabula de Amalpha. Ci si lascia affascinare dai disegni e dalle stoffe degli abiti del corteo storico delle regate, disegnati dallo scenografo Roberto Scielzo; come dai volti dei personaggi, Masaniello, la Duchessa di Amalfi e Flavio Gioia che, a metà tra leggenda e realtà, hanno abitato e reso noti questi luoghi impervi. In ultimo (naturalmente solo per collocazione) la storia dei Santi che hanno contraddistinto la religiosità, a volte un po’ pagana, dei paesi Costieri. La storia dell’apostolo Andrea, come quella meno nota di Santa Trofimena e delle Madonne di Maiori e Positano, non fanno che ribadire il legame di questa terra con il mare.

 

IL MUSEO DELLA CARTA

La scoperta della carta segnò una delle più fulgide pietre miliari nella storia della civiltà umana; questa scoperta è universalmente attribuita ad un ministro cinese di nome Ts’ai Lun, nel 105 dopo Cristo. Si narra che Ts’ai Lun si trovava sulle rive di uno stagno accanto ad una lavandaia che stava sciacquando nell’acqua alcuni panni piuttosto logori. I panni, mal soffrendo l’azione di strofinio e di sbattitura, si sfilacciavano e le fibrelle galleggianti sull’acqua andavano a riunirsi in una piccola insenatura ai piedi di Ts’ai Lun. Sul pelo dell’acqua si formò dopo qualche tempo, un velo di fibrelle ben feltrate che Ts’ai Lun osservò, raccolse con delicatezza e pose a seccare sull’erba. Il foglio secco e avente una certa consistenza, bianco, morbido, diede a Ts’ai Lun la grande idea, quel foglio poteva ricevere la scrittura.Il cammino che l’arte di fabbricare la carta compì dal luogo di origine attraverso il mondo, fu relativamente veloce. Mentre verso oriente attraverso la Corea giunse in Giappone nel VI secolo dopo Cristo, verso occidente giunse in Arabia e si affacciò al Mediterraneo.La nuova arte per le sue peculiari qualità ebbe successo e nel volgere di poco tempo sostituì la lavorazione del papiro. La materia originariamente utilizzata per la produzione della carta cioè il gelso, fu sostituita dal bambù con opportuni trattamenti. Furono poi adoperati il lino, la canapa, i cenci. Ciascun cartaio aveva i suoi procedimenti, le sue, formule, i suoi segreti. Ma non solo il cartaio coadiuvato generalmente dal suo nucleo familiare, era l’artefice di questa lavorazione; anche il letterato, lo scrittore, il copista, e il pubblico scrivano si fabbricavano da sé la carta, tanto era divulgato il procedimento e semplici gli arnesi per la realizzazione. In pratica infatti il procedimento era rimasto tale e quale i Cinesi l’avevano tramandato. Spetta alle popolazioni italiane il merito di aver compiuto i primi passi verso una produzione per così dire più industriale. Molte operazioni puramente manuali furono meccanizzate, sia pure con i mezzi rudimentali allora conosciuti, a vantaggio della produzione e dei costi. Tra i primi centri dove si scoprì nel XII e XIII secolo l’esistenza della carta, se si vogliono dare per scontate le notizie contenute negli atti notarili che parlano dell’esistenza di prodotti cartacei, pur non specificando se questi venivano importati da altri posti e commerciati nelle sopra menzionate località, vi furono i territori delle Repubbliche Marinare; Amalfi, Pisa, Genova e Venezia che avevano fondachi sia in Siria, sia sulle coste della Palestina, ove erano appunto situati i maggiori centri per la produzione di carta. Queste Repubbliche, inoltre, intrattenevano intensi rapporti commerciali con l’oriente e avrebbero potuto imparare dagli orientali l’arte di fabbricare carta senza troppe difficoltà, oppure non è da escludere che a bordo delle “galee”, che in epoca medievale facevano la spola tra le nostre coste e la Terra Santa per trasportare crociati e mercanzie, si siano imbarcati “Magistri in arte cartarum” i quali come mano d’opera specializzata abbiano introdotto tale tipo di lavorazione. Amalfi la più antica delle repubbliche marinare già nel IX secolo aveva propri fondachi sia a Palermo che a Messina e a Siracusa, ove l’amalfitania è ancora oggi presente nella toponomastica locale. Annosa resta la questione sul primato della carta in Italia e quindi in Europa ed a contenderselo sono principalmente Amalfi e Fabriano. A sostegno della tesi che vuole Amalfi come la prima città ad aver introdotto tale tipo di lavorazione si schierano autorevoli storici come Matteo Camera il quale nel volume “Istoria della Città e Costiera di Amalfi” scriveva “Egli è indubitato che la manifattura della carta da scrivere, sia di papiro o della così detta bambagina, risale al XIII secolo fra noi; ed essa fu lungamente una delle principali industrie di Amalfi.” Senza voler entrare nel merito di una così nobile contesa quello che è importante sapere è che ad Amalfi si sviluppò una vera e propria industria cartaria che vide in breve tempo nascere e svilupparsi innumerevoli cartiere che hanno contribuito a rendere questo paese famoso in tutto il mondo per la sua pregiata produzione cartaria. La maggior parte delle Cartiere furono impiantate lungo la Valle dei Mulini. La suggestiva valle è stata descritta e decantata da scrittori, come Henry Longfllow, e ritratta da artisti di ogni tempo, come l’Amalfitano Pietro Scoppetta, il cui acquerello si ammira nel museo di Capodimonte di Napoli. Questa la descrizione che ne dava ai primi dell’ottocento lo scrittore Karl Friedrich: “Condutture di acqua sorgono lungo il pendio sotto la roccia che inarca come una grotta, o sono aderenti alla parete della roccia. I letti dei fiumi sono spesso coperti da larghi pergolati di viti. All’ultimo angolo la valle sembra essere chiusa da un edificio a più piani di una fabbrica, dove si produce la carta”. Attraverso questa valle scorre il fiume Canneto, sorgente dai monti Lattari, che attraverso una serie di canali sotterranei che corrono parallelamente ma distintamente al corso naturale del fiume costituiva la forza motrice dei macchinari necessari per la produzione della carta. All’epoca della formazione del catasto onciario, che costituisce la più interessante e in pari tempo, almeno finora, la più completa documentazione per il 1700, erano in attività nel centro cittadino 11 cartiere della capacità di 83 pile (vasca di pietra in cui si pestavano i cenci per farne carta). Alcune di esse erano dei grandi complessi, con “spandituri” (locali con ampie finestre e numerose fenditure, adibiti all’essiccamento della carta disposta su filari longitudinali); altre invece di più modeste dimensioni.La materia prima impiegata per la produzione di carta erano gli stracci, che oltre ad essere raccolti nelle strade delle contrade limitrofe ad Amalfi, veniva anche da fuori. 

Si ha notizia di numerosi carichi provenienti dalla capitale di “roba straccia”, “pezza bianca” ed altro, che all’atto dell’immissione erano soggetti al pagamento di 5 grani a cantaro o di 5 tornesi, se provenienti dalla capitale, a titolo di “ius peso e mezzo peso” alla dogana baronale di Amalfi. Le cartiere per la loro ubicazione erano soggette ai danni delle alluvioni nei mesi piovosi, e alla mancanza di acqua in quelli di siccità. Nel primo caso, l’acqua con cui lavoravano si accompagnava a detriti; nel secondo, la scarsa quantità di acqua non era sufficiente “a battere tutte le pile” e quindi era necessaria una turnazione. Le complesse e gravi vicissitudini storico – politico – sociali e soprattutto l’industrializzazione diedero un fortissimo colpo a questa, come alle altre piccole industrie amalfitane, che non poterono stare al passo dei tempi. Al lento, ma progressivo declino influirono diverse cause: la ubicazione della Valle de Amalfi – Museo della Carta – un momento della lavorazione in cartierai Mulini, suggestiva quanto mai, ma aspra e ristretta e, quindi, mancante di facili vie di comunicazione, mediante un reticolato stradale o ferroviario con i grandi centri; la difficoltà di approvvigionamento delle materie prime e dello smercio del prodotto, non competitivo con quello di altre più moderne ed attrezzate industrie; la mancanza di acque abbondanti dei fiumi a regime costante, fattore questo dominante per l’alimentazione delle fabbriche e il mancato ammodernamento delle attrezzature. Queste deprimenti cause costrinsero diverse cartiere a smettere il lavoro. Dello stato molto critico e difficile, si fecero interpreti alcuni lavoratori con una supplica al Re per implorare aiuto. Egli rispondeva in questi termini: “Le lacrime dei nostri figli, proprio della bassa gente…..giungono ormai a Noi….Le tante macchine che l’uomo usurpatore e perspicace ha saputo inventare e ne inventa tutto dì, sono quelle che tolgono pane dalla bocca dei nostri fedeli sudditi nell’intero Regno …”. Nonostante tante difficoltà, i cartai amalfitani, impiegando spirito di sacrificio, tenace volontà e laboriosità, continuarono la produzione in virtù soprattutto della tradizione. generazione in generazione, da padre in figlio, conservando sempre quella intraprendenza insita nel loro carattere. L’ultimo e tremendo colpo al tracollo dell’industria cartaria fu la catastrofica alluvione del novembre 1954. Essa distrusse la maggior parte delle cartiere. Delle sedici ancora in attività all’epoca della catastrofe ad Amalfi, ne rimasero soltanto tre. Quella di Amalfi non è stata, né poteva essere una media o grande industria; ma ha avuto sin dalle origini, il carattere di artigianato, come in altri campi, di una industria per lo più familiare e proprio questo è vanto e maggior titolo dei cartai di ieri e oggi. Si ha notizia di numerosi carichi provenienti dalla capitale di “roba straccia”, “pezza bianca” ed altro, che all’atto dell’immissione erano soggetti al pagamento di 5 grani a cantaro o di 5 tornesi, se provenienti dalla capitale, a titolo di “ius peso e mezzo peso” alla dogana baronale di Amalfi. Le cartiere per la loro ubicazione erano soggette ai danni delle alluvioni nei mesi piovosi, e alla mancanza di acqua in quelli di siccità. Nel primo caso, l’acqua con cui lavoravano si accompagnava a detriti; nel secondo, la scarsa quantità di acqua non era sufficiente “a battere tutte le pile” e quindi era necessaria una turnazione. Le complesse e gravi vicissitudini storico – politico – sociali e soprattutto l’industrializzazione diedero un fortissimo colpo a questa, come alle altre piccole industrie amalfitane, che non poterono stare al passo dei tempi. 

Si ringrazia la Fondazione Museo della Carta e Bambagina Srl per i testi



GROTTA DELLO SMERALDO

L’ ingresso è anonimo ma, tempo pochi secondi, il tempo per Voi non avrà più valore…e neppure il colore, la concezione che comunemente si ha di esso almeno. La Grotta né è il tempio, la magnificenza, un ricamo di luce lungo millenni, che il mare riproduce nelle sfumature più sublimi: blu cobalto che cede il passo al turchese…turchese che diviene verde… verde smeraldo… che tutto avvolge… L’interno è in tutto simile ad un magnifico tempio orientale, ricco di colonne, stalattiti e cortine dalle forme bizzarre, alle quali la fantasia popolare ha attribuito i nomi più curiosi e gli accostamenti più arditi. È così che troviamo sirene ed animali fantastici, personaggi famosi: Garibaldi a cavallo, che per i turisti americani diviene Gorge Washington, per i francesi Napoleone… Questo magnifico antro infatti, fonde agli elementi tipici di una grotta carsica con quelli di una grotta marina. In origine la grotta era posta al di sopra del livello del mare, ed il lento stillicidio diede origine a stalattiti e stalagmiti di varie dimensioni; in seguito, circa 6000 anni fa, l’innalzamento della temperatura terrestre e fenomeni di bradisismo causarono l’innalzamento del livello del mare, sommergendo ampi tratti della costa, e portando le acque del Tirreno ad invadere parzialmente la grotta, che venne così ad assumere le meravigliose caratteristiche attuali, dovute essenzialmente all’esistenza, a circa 4 metri sotto il livello dell’acqua, di un’apertura verso il mare aperto… La Grotta dello Smeraldo venne scoperta nel 1932 da un pescatore del luogo, incuriosito da due strani fori sulla parete rocciosa: fino alla morte portò con orgoglio la fascia di “Scopritore della Grotta dello Smeraldo”… Prima di uscire assolutamente da non perdere: il suggestivo presepe sommerso in ceramica di Vietri, che ogni anno in occasione del santo Natale, un nutrito stuolo di subacquei provenienti da tutta Italia omaggiano con una suggestiva processione…