il peso della valigia

Il peso della valigia. Il ruolo della cultura nell’associazione tra turismo e pace

di Fabio Carbone

Il titolo di un brano musicale italiano ispira il titolo di questo articolo, ed un suo verso lo introduce:

“Hai fatto tutta quella strada per arrivare fin qui
E ad ogni sosta c’era sempre qualcuno
E quasi sempre tu hai provato a parlare
Ma non sentiva nessuno”
(Il peso della valigia, Luciano Ligabue)

Ogni viaggio termina con un senso di distensione e soddisfazione per l’esperienza umana vissuta altrove, alle persone incontrate e I nuovi posti visitati. Ma al netto del comprensibile entusiasmo, ci interroghiamo mai sulla qualità dei nostri incontri durante la nostra permanenza? Ci chiediamo mai “cosa ho lasciato di positivo?”. Cosa avevamo in valigia al momento della nostra partenza? E cosa ci portiamo in valigia al nostro ritorno?

La stragrande maggioranza dei lettori – così come la stragrande maggioranza degli accademici nell’area del turismo – è convinta che il turismo sia un veicolo per la creazione di una cultura di pace (o semplicemente accetta per vera tale relazione causale). Il principale argomento a sostegno di tale tesi è basato sulla “teoria del contatto”: l’incontro di persone di culture diverse, genera un processo positivo di conoscenza e dialogo interculturale. Secondo questa teoria, dunque, il turismo è per antonomasia veicolo di dialogo e comprensione globale, e pace. Ma è proprio cosi?

Tale impianto argomentativo a favore del nesso turismo-pace pare inizi infatti a vacillare quando si riflette sull’esistenza di alcuni degli aspetti più “sinistri” dell’attività turistica: la mercificazione della miseria umana attraverso il turismo (vedi visite alle slums asiatiche – per lo più da parte di turisti caucasici in un atto più o meno inconscio di commiserazione post-colonialistico); l’overtourism; l’effetto dimostrativo sulle popolazioni locali; le varie modalità di sfruttamento minorile; il turismo sessuale, etc. Inoltre, quale peso è dato veramente alla cultura e allo scambio culturale, al fattore umano, nel pianificare un viaggio o lo sviluppo di una destinazione turistica?

A ben vedere, l’atto di viaggiare risulta nella maggior parte dei casi un atto di profondo egoismo (alla ricerca di sollievo da stress accumulato nel proprio luogo di residenza; soddisfazione di curiosità ed esigenze psicofisiche e intellettuali personali) da parte dei turisti, nonché un processo incatenato ancora a regole neoliberali, da parte dei gestori delle destinazioni, in stile show me the money! A proposito di pace, è bene ricordare che il filosofo Kant, ideatore del concetto di Pace Perpetua, dichiarava senza esitazioni che uno dei presupposti alla pace è la percezione dell’Uomo come fine di tutte le cose, piuttosto che mezzo per raggiungere fini altri. Questo dovrebbe essere uno dei principi cardine di ogni attività turistica e processo di sviluppo e gestione delle destinazioni.

Senza dubbio negli ultimi anni sono sorte tendenze più confortanti. Tra queste, il turismo trasformativo è sintesi dei nuovi turismi – sostenibile, responsabile, esperienziale – che sono a loro volta risposta alla richiesta dei nuovi turisti di maggiore qualità, più socialità, prodotti in linea con i loro valori. Sorgono poi interessanti progetti promossi direttamente dalla società civile, per la promozione di uno sviluppo basato su processi bottom-up di decision making locale. Un esempio su tutti nel panorama italiano è quello dell’associazione #IoResto, a Crotone (ioresto.org). L’operato di questa organizzazione rispecchia il motto – che è anche manifesto programmatico: Cambiamo la citta, per non cambiare città, e gli è valso il riconoscimento della UN World Tourism Organisation per il contributo dato al raggiungimento dei Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite.

Esiste comunque molto lavoro da fare prima che il turismo possa essere definito a ragione veicolo di pace, essendolo sicuramente in potenza, ma non (ancora) in atto. E la cultura ha sicuramente un ruolo importantissimo nella realizzazione di tale potenziale, in modo più complesso di quanto si immagini. Il modello Paideia Approach to cultural heritage management and tourism development riflette tale complessità. Questo modello si basa sulla filosofia socratica del “conosci te stesso”: impossibile conoscere l’altro se non conosciamo prima noi stessi. L’applicazione di tale filosofia ad un modello di gestione dei beni culturali e sviluppo turistico, implica, da un lato, l’impegno degli attori locali e nazionali, pubblici e privati, a promuovere la valorizzazione dei beni culturali in primis presso la comunità residente, al fine di innescare un processo di cultural awareness che porti risulti ad un processo di potenziamento del carattere della destinazione, ad una maggiore partecipazione pubblica, ad un maggior rispetto verso le risorse culturali, una maggiore capacità di dialogo interculturale. Il fattore umano si pone così al centro dello sviluppo turistico, attraverso la valorizzazione del carattere culturale della comunità locale. D’altro lato, tale approccio – che combina cultura, educazione e turismo – instillerebbe nelle comunità un nuovo atteggiamento non appena in quanto host community, ma anche in quanto viaggiatori, a loro volta. In tal senso, il viaggiatore risulterebbe stimolato ad una maggiore consapevolezza del suo ruolo di ambasciatore della propria cultura e potenziale promotore di dialogo interculturale per la comprensione globale e la pace.

Un atteggiamento in base al quale il peso della valigia non derivi, nel viaggio di andata, esclusivamente dal numero di capi di abbigliamento più o meno eleganti, più o meno sportivi che vi si mettono dentro per andare in vacanza, ma anche dalla voglia di rappresentare le proprie origini e radici in modo aperto verso le culture delle comunità che si visitano, tentando di instaurare con esse un dialogo autentico. Scegliendo meno attività, ma di maggiore qualità, prediligendo sempre la valorizzazione del fattore umano dell’esperienza turistica.
Allo stesso modo, nel viaggio di ritorno il peso della valigia non dovrebbe più derivare dal numero di souvenir (leggi: paccottiglia) comprati, bensì dal numero di momenti memorabili e irripetibili vissuti con persone di una diversa cultura, dal numero di conversazioni avute, dal numero di sorrisi dati e ricevuti, dal numero di cuori che si è riusciti a toccare. Dal senso di missione compiuta in quanto ambasciatori di pace. Quando in questo consisterà il peso delle valigie agli arrivi e alle partenze di ogni aeroporto, allora potremo finalmente dire che il turismo sia veramente diventato veicolo di pace.

Blessed Are the Artisans of Peace!