Armenia: “CHIESE DI CRISTALLO” E KHATCHKAR
di Antonella Riboni
L’espressione “chiese di cristallo” compare nel titolo di un articolo scritto dallo storico e critico d’arte Cesare Brandi (1906-1988) nel 1968 per il Corriere della Sera, che recensiva una mostra fotografica sull’architettura armena. Trovò un’analogia con la foggia del cristallo di rocca per descrivere la struttura delle chiese armene, spesso innalzate in posizione dominante su un’altura, apparendo da lontano come un cubo sormontato da una cuspide conica o piramidale, con spigoli taglienti. Caratteristica peculiare degli edifici di culto in Armenia è l’assenza di quella evoluzione stilistica che si è verificata nell’architettura religiosa d’Occidente: la struttura delle chiese armene ha infatti mantenuto inalterati i suoi elementi costitutivi stabiliti dal suo fondatore, San Gregorio Illuminatore, primo Katholikos – l’autorità massima della chiesa Apostolica Armena.
Gregorio apparteneva alla dinastia reale degli Arsacidi d’Armenia, ma, a causa dell’omicidio del sovrano armeno Cosroe I da parte di suo padre, dovette rifugiarsi, insieme a tutta la famiglia, a Cesarea in Cappadocia. Solo dopo la maggiore età ritornò in Armenia e grazie all’educazione da parte di un nobile convertito al cristianesimo, di nome Eutalio, Gregorio cercò di introdurre la religione cristiana nel suo paese natale. In quel periodo regnava Tiridate III d’Armenia, figlio di quel Chosroe I che il padre di Gregorio aveva ucciso. Il sovrano era cresciuto in territorio romano e considerava i cristiani come disturbatori della società e della religione. Con questa convinzione iniziò a perseguitare i primi missionari cristiani in Armenia, e, in particolar modo, perseguì l’efficace campagna del predicatore Gregorio che aveva fatto molti proseliti.
Gregorio fu quindi imprigionato nella fortezza-prigione di Khor Virap, ancora oggi visibile, nella città di Artašat, dove il predicatore rimase per ben tredici anni.
La leggenda vuole che a seguito delle sue persecuzioni contro i cristiani, il re armeno venisse colto da una terribile malattia, dalla quale nessun medico di corte riusciva a curarlo. Quando la sorella del re ebbe un sogno che le parlò dei poteri miracolosi del predicatore imprigionato nelle segrete, il re rifiutò inizialmente la proposta, ma, alla fine, cedette e venne guarito per intercessione di Gregorio.
Secondo la tradizione furono gli apostoli Bartolomeo e Giuda Taddeo ad iniziare l’evangelizzazione di questa terra sotto il regno di Urartu nel primo secolo, gettando così le basi per i futuri cristiani ma, grazie alla guarigione, Tiridate III si convertì al cristianesimo e nel 301 la proclamò religione di Stato. Gregorio fu quindi in grado di iniziare la costruzione di chiese, scuole religiose e conventi, stabilendo canoni precisi e dettagliati per la realizzazione degli edifici. Sempre e dovunque l’elemento centrale della chiesa armena è la cupola, sovrastata da un alto tamburo che culmina con una cuspide. L’interno è raccolto e spoglio, per aiutare la concentrazione nella preghiera, ma, grazie al materiale utilizzato, il tufo, – a volte anche basalto o granito – i costruttori, in alcune chiese, si sono serviti di pietre levigate di tonalità diverse per comporre giochi cromatici originalissimi e molto ornamentali pur nella loro semplicità. L’Armenia è particolarmente ricca di questo materiale: di origine vulcanica, è leggero e facile da tagliare e levigare appena estratto dalla cava, mentre si indurisce con l’esposizione all’atmosfera e può assumere una vasta gamma cromatica che va dalle tonalità del nero, grigio, bruno fino a quelle del rosa, ocra, violetto, rosso mattone, verde.
Altro elemento ricorrente è il gavit, un vasto ambiente coperto che precede l’ingresso delle chiese, utilizzato in genere come sala adibita ad assemblee, tribunale, aula d’insegnamento. Solitamente si regge su quattro colonne ed ha un’apertura verso il cielo circondata da motivi “a stalattiti” (muqarnas, dell’architettura araba), cui si attribuisce anche una funzione acustica. Questo motivo, di origine tipicamente islamica, è il risultato di contatti con il mondo persiano, ma si differenzia nell’uso dei materiali: le stalattiti islamiche sono realizzate in stucco o ceramica policroma, quelle armene invece in pietra da taglio.
Il tufo si presta idealmente anche alla lavorazione di bassorilievi, che sovrastano i portali delle chiese e all’incisione delle tipiche croci dette khatchkar. “Khatch” significa “croce” e “kar” “pietra”, quindi letteralmente tale denominazione denota appunto delle croci di pietra. L’abilità nella lavorazione della pietra da parte degli artigiani armeni tocca il suo vertice in queste grandi lastre di pietra poste verticalmente sopra le tombe, o attorno alle chiese o all’interno dei gavit. I khatchkar sono numerosissimi, ancora oggi in territorio armeno se ne contano circa quarantamila. Sono una forma d’arte originalissima, che ha accompagnato gli armeni nel corso di tutta la loro storia. Hanno fin dalle origini assunto funzione commemorativa, celebrativa e funeraria, e tali sono sentiti anche oggi. Per comprenderne l’evoluzione, bisogna risalire alle loro origini. Nell’era precristiana vi erano dei cippi noti come vishap, che contrassegnavano il territorio. Il vishap era una grande stele figurata, con la testa a forma di pesce o drago, probabilmente collegata con il culto dell’acqua in epoca pagana e tipica del secondo millennio a. C. mentre fu a partire dal IV sec. d. C. che compare la croce, innalzata a testimonianza del martirio dei primi cristiani. Inizialmente le croci erano lignee; divennero in pietra a partire dal V sec., anche se all’epoca il motivo celebrativo più impiegato era una stele votiva, appoggiata su un basamento a forma di prisma, ornata con motivi vegetali stilizzati.
Il khatchkar, propriamente detto, fa la sua comparsa nel IX e X sec. La stragrande maggioranza dei khatchkar presenta bracci elaborati alle estremità e riccioli agli apici; dalla base dipartono ramificazioni con foglie, grappoli d’uva e melograni, disposti simmetricamente, che rimandano all’ “Albero della Vita”; in genere non compare la figura del Crocefisso, ma una croce vuota.
In Italia possono essere ammirati due importanti esempi di khatchkar. All’Isola di San Lazzaro degli Armeni, a Venezia, accanto all’ingresso principale del monastero, si erge un khatchkar del XIII sec., in tufo grigio. Opera del celebre maestro Poghos, è stato donato dalla Repubblica Armena alla Regione Veneto in segno di amicizia e a testimonianza dell’antico connubio che lega Venezia e il popolo armeno. Altro bellissimo khatchkar è conservato al Museo Archeologico di Milano.
Le chiese, tutt’oggi rimaste, possono presentarsi isolate, ma più spesso fanno parte di complessi monastici e “dialogano” con il territorio, con l’ambiente naturale, come il complesso monastico di Noravankh del XIII sec. Si trova in cima ad un precipizio in un paesaggio molto simile a quello del Grand Canyon, fatto di terra rossa e profonde gole: la Valle del fiume Amaghu, si fonde armonicamente con il tufo chiaro degli edifici.
E’ formato da tre chiese, ognuna con una sua peculiarità; la più originale è quella di S. Astvatzatzin, per la struttura a due piani. Si può accedere al piano superiore, salendo un’impervia scaletta che, per la singolarità della collocazione funge anche da motivo decorativo della facciata principale.
Di grande suggestione è il complesso di Khor Virap, il cui nome in armeno significa “pozzo profondo”: dall’interno della chiesa si può scendere in un ambiente profondo oltre sei metri -forse un’antica cisterna- che la tradizione identifica con la prigione di San Gregorio l’Illuminatore. Oltre che per la sua importanza storica, questo luogo è meta irrinunciabile perché dall’alto delle sue mura si può godere di una delle più belle viste dell’Ararat, l’antico vulcano sulla cui cima pare sia approdata l’Arca di Noè. Appare vicinissimo ed imprendibile, con i suoi oltre 5000 metri di altezza e con la cima perennemente innevata, ma che dal 1921 non fa più parte del territorio armeno. (L’Ararat passò sotto il controllo turco durante la guerra tra Turchia e Armenia del 1920 e formalmente divenne parte della Turchia secondo il Trattato di Mosca del 1921).
Un altro esempio di architettura sacra è il complesso monastico di Geghard; è tra i più antichi, risalente ai primi secoli dopo la conversione e si compone di quattro edifici principali, costruiti in epoche diverse. Anche il paesaggio dei dintorni contribuisce a rendere questo monastero un luogo di rara bellezza: si trova infatti all’interno della gola del fiume Azat, dove si alternano montagne innevate e guglie rocciose. Particolarmente singolari sono le chiese scavate nella roccia, le celle dei monaci abbarbicate sulla montagna e una miriade di piccole croci sulle pareti, incise nella pietra, visibili nella semioscurità della chiesa più interna.
Le due chiese gemelle di S. Astvatzatzin e S. Arakhelots, raggiungibili grazie ad una ripida scalinata di un centinaio di scalini, dominano invece l’enorme bacino del Lago Sevan. Proprio nel cuore del paese si trova questa grande distesa d’acqua dolce che gli armeni considerano il loro mare. Il nome Sevan deriva dalla parola sev, che in armeno significa “nero”: secondo una leggenda, durante un’invasione da parte degli arabi, gli abitanti di una delle città si rifugiarono sull’isola sfruttando il lago ghiacciato. Quando gli arabi provarono a fare la stessa cosa, il ghiaccio cedette e si colorò di nero per via dei numerosi morti. In origine il territorio su cui sorgono le due chiese era un’isola, ma a seguito del progressivo abbassamento delle acque del lago si è trasformato in promontorio. Le due chiese risalgono al IX secolo e nella chiesa di S. Astvatzatzin si trova uno dei rarissimi khachkar che propone la figura di Gesù inchiodato sulla croce.
Questi sono solo alcuni delle chiese/monasteri dove ambiente costruito e paesaggio si fanno complementari. Inoltre risulta evidente che, a partire dalla conversione ufficiale, la storia e i destini dell’Armenia risultano connessi con quelli del cristianesimo, in cui fede religiosa, identità culturale e coscienza nazionale si sono unite e questo connubio è ben espresso nell’Ode all’Armenia una composizione del poeta Elise Ciarenz (1897-1937) dove le
immagini evocate fanno risaltare la profondità della storia e la bellezza della natura armena. Un paese che lascia sempre qualcosa di profondo a chiunque intenda visitarlo.
Io della mia dolce Armenia amo la parola dal sapore di sole,
Della nostra antica lira amo le corde dai pianti di lamento,
Dei fiori color sangue e delle rose il profumo ardente
E delle fanciulle di Nayiri amo la danza morbida e agile.
Amo il nostro cielo turchese, le acque chiare, il lago di luce,
Il sole d’estate e d’inverno la fiera borea stanante il drago,
Le nostre pareti inospitali delle capanne sperdute nel buio
E delle antiche città amo la pietra dei millenni.
Non dimenticherò i nostri canti lamentosi, ovunque io sia,
Non dimenticherò i nostri libri incisi con lo stilo, divenuti preghiera,
Per quanto lacerino il cuore le nostre piaghe sprizzanti sangue,
Amerò ancor più la mia Armenia amorosa, orfana, ardente di sangue.
Non vi è alcun’altra leggenda per il mio cuore colmo di nostalgia,
Simile al Narekatsi e a Kučhak non vi è fronte luminosa,
Attraversa il mondo, non vi è simile all’Ararat vetta bianca,
Qual cammino di gloria inaccessibile, il mio monte Masis io amo.
Traduzione di Boghos Levon Zekiyan ( arcieparca di Costantinopoli degli armeni in Turchia)